ANDAR PER CHIESE

di Cesare Angelini

 

È stupefacente la notizia dell'Anonimo Ticinese: che nel Trecento in Pavia, piccola terra di ventimila anime e su un 'area assai ristretta a giudicare dalla vecchia cinta medievale, c'erano centotrentacinque chiese! (Qui, il punto esclamativo proprio ci vuole). Numero quasi incredibile se, in un prospetto della città, proprio dell'epoca, non le vedessimo lì, tutte in piedi. Mettetele insieme con le cento torri che allora si drizzavano nel cielo, e pensate che strana selva, che vista spettacolosa sotto il sole cattolico di Pavia.

Opicino de Canistris, da cronista scrupoloso, nel De laudibus civitatis ticinensis le nomina tutte. Tutte? Mons. Rodolfo Maiocchi, editore del De laudibus ancora anonimo, nelle sue Chiese di Pavia, che, come fondo di notizie, restano sempre un bel capitale, dice che qualcuno l'ha dimenticata; quella, per esempio, di San Gallo. Sono lieto di rendere testimonianza all'amorosa sagacia di un illustre rettore dell'Almo Collegio Borromeo, studioso di pittori lombardi e felice ricercatore d'archivi, di stoffa muratoriana.

Dunque Opicino, da cronista scrupoloso, le nomina quasi tutte; sessanta erano parrò echi e; le altre, sussidiarie o cappelle di conventi. Di molte da l'atto di nascita, la descrizione della fabbrica; e per poco non ci fa sentire i caratteristici stridii, cigolii, miagola delle porte di sagristia, degli usci del coro, che paiono privilegio delle chiese ancora oggi. Di altre, nota la singolare divozione dei rionanti, e di almeno quindici dice che avevano la cripta o scurolo. Il nome di molte ha fragranza d'oriente: Santa Maria in Betlem, chiesa del Santo Sepolcro, Santa Maria di Nazaret, chiesa del Carmelo, chiesa di San Siro o uomo di Siria (e leggi Terrasanta): testimonia che Pavia, al confluente del Ticino col Po, era un punto tipico per il «passaggio» dei pellegrini che andavano ai luoghi santi o ne tornavano.

Liturgicamente orientale o voltate a levante, erano quasi tutte di stile romanico, da farci pensare che, se lo stile romanico, o lombardo, non è nato a Pavia, qui ha avuto una sua potente esplosione. Costruite dopo il Mille o ricostruite su chiese preesistenti, magari ariane. La rilevanza del numero si spiega: ogni corporazione d'arti e mestieri aveva la sua; c'era la chiesa dei «legnamari», quella degli «scarpari», quella degli «aromatari» o «speziali», quella dei «notari», quella dei «brentadori», quella dei «liutari», quella dei «fabbriferrai», quella degli «oleari», quella degli «orefici», quella dei «battuti» o «disciplini» (dalla pratica di battersi con flagelli), quella dei «lavandari», quella degli «ortolani» e via dicendo. Quella dei «barcaioli» sorgeva sul Ponte Coperto, abbriccata a un'arcata come un nido di rondine. Notizie e notiziette d'ognuna si possono sempre trovare in vecchie cronache che parlano dei vari parafici o corporazioni. In una ho trovato che in piazza Borromeo c'era perfino la «piccola chiesa delle donne oneste». Inutile sorridere su quel «piccola», che pare una moderna invenzione del nostro Panzini.

La quantità colpì anche Dino Compagni, capitato a Pavia nel mese di agosto quando la gente usa andar per chiese, ai perdoni; e poiché Dino era un uomo timorato, n'ebbe impressione di città profondamente religiosa.

Ma io penso spesso e volentieri che sdindonìo, che fiorir d'aria, che sabato del villaggio doveva essere la sera quando, un po' prima e un po’ dopo, quelle sessanta parrocchie davano il segno dell'avemaria. La gente non poteva esser meglio scortata nel riposo del sonno, nella ilarità dei sogni. Verso il 1600, le parrocchie furono ridotte a trenta; oggi sono sette o otto, segno di organizzazione sempre più perfetta anche nella registrazioni e nel buon governo delle anime.

Tornando a quelle centotrentacinque chiese su un'area così ristretta e per così poca popolazione, si vorrebbe notare il pericolo che ne doveva nascere d'una eccessiva dimestichezza con Dio e la sua casa. Del resto anche qui dipende; c'è sempre la contropartita, perché, proprio da questa vicinanza, da questo vivere in contubernium con Dio e i suoi santi, ne poteva derivare un bene; e forse, proprio per questo, il vivere dei cittadini era così riposato, così riguardoso, e i costumi più miti. Si stabilivano, insomma, affabili sodalizi tra le case degli uomini e quelle di Dio, sempre pronto a chiudere un occhio se la troppa confidenza faceva perdere un po' la riverenza. (E pensate che variopinta chiericia doveva muoversi in quei giorni per le contrade della nostra città; e le risse tra i questuanti, i litigi tra ordine e ordine sui diversi privilegi; come poteva accadere a gente che aveva anche tempo da perdere).

Poi, alcune sono crollate per vecchiaia, altre furono chiuse per il diminuire del fervore religioso che aveva tanto animata la splendente età del Comune; altre, abbattute per ragioni pratiche di sviluppo urbanistico; altre, per la soppressione dei conventi, convenite (o pervenite} in sostre di legname come quella di San Maiolo in via Rezia, o in magazzni militari, come la bellissima San Tommaso in piazza del Lino. Sì che in certe ore, dietro gli urlazzi dei carbonai o le bestemmie del sergente di giornata, puoi risentire il suono sommerso dell'organo o le preghiere dei canonici in coro.

Ma, scomparsa è l'antichissima chiesa di San Zeno, frequentata dal Petrarca quand'era ospite dei Visconti nel palazzo signorile. L'intelligente amore di un podestà ne ha scoperto alcuni avanzi nella parte dell'abside, che ora, lì in piedi, appoggiati a muri provvisori in piazza della Prefettura, nel loro rosso mattone paiono sanguinenti ossa di ittiosauri in mostra.

Scomparsa quella di Santa Maria delle Pertiche, che sorgeva tra il Castello e porta Milano, e Leonardo ce ne lasciò uno schizzo. Era chiamata così perché attorno vi sorgeva il cimitero nazionale longobardo, dove più illustri cittadini morti lontano da Pavia erano ricordati da una pertica piantata nel terreno: quasi un parco delle rimembranze. Scomparsa quella di Sant'Eusebio, di cui rimane la cripta, ubicata (dicono le Guide) nel sottosuolo di piazza Leonardo da Vinci.

Scomparsa quella di San Giovanni in Borgo, esemplare perfetta d'architettura e scultura romanica, a tre navate, con una facciata piena d'occhi, che erano poi scodelle di terracotta dipinta e, accese dal sole, cacciavano splendore. Sotto il portico antistante, adunava dodici tombe di re. Fu abbattuta nel 1815 per finire il lato giardino del Collegio Borromeo. Una vera boiata; potendo fare una cosa, salvando l'altra.

Scomparse quelle di Santo Stefano e di Santa Maria del popolo, le cattedrali della città, l'una ufficiata d'inverno e l'altra d'estate; dice l'importanza di questa sede vescovile che si permetteva tali villeggiature. Sul loro posto sorse, verso la metà del Quattrocento, per volontà di Ascanio Sforza, vescovo di Pavia e fratello del Duca di Milano, l'imponentissimo Duomo, un miracolo uscito dalla mente del Bramante. Non vorrei essere irriverente, ma, al primo entrarci, da il senso d'un gran salone da ballo: quello spazio, quelle colonne, quei cento occhi tondi che vi guardano da ogni parte. Intendiamoci: un salone in cui la festa è organizzata come in un salmo: «precedono i cantori, seguono i citaredi, e, nel mezzo, le fanciulle suonano e ballano. Dall'altare, il vescovo mena la danza sul ritmo del salmo 105».

Scomparsa... scomparse... Ma quelle che restano! Sono regine da corona, per arte, per storia.

Miracoli, che io sappia, in queste chiese non ne sono mai avvenuti. A Pavia, anche la santità di cui si ha pur sempre bisogno, ha sempre avuto un andamento di savia e ordinaria amministrazione, e uno può entrarci tranquillo, sicuro di non esser stravolto da quell'aria di miracolone che fa correre la gente e fa restare col fiato sospeso in un sacro timore, custodiscono piuttosto una quantità di reliquie, e questo fa piacere, perché le ossa dei santi e dei martiri fanno sempre buona compagnia. Nel medio evo andavano a ruba, e, l'averne, costituiva una specie di dote per le stesse regine, come ora lo è per le chiese. Sotto gli altari, puoi trovarvi sepolto un re, una regina, o anche due; che almeno lì anche i re trovano pace.

La più famosa è sempre San Michele, ed è la più antica, se è ricordata da Paolo Diacono, storico dei Longobardi. Non è precisamente quella che videro i suoi occhi, distrutta verso il Mille dagli Ungheri insieme con tutta la città; ma quella sorta un po' più tardi sulle stesse fondamenta.

Chi viene a Pavia col tempo contato, tralascia di veder tutto il resto, ma San Michele no. Un'antica fama vuole che vi si incoronassero i re al tempo che Pavia era capitale; e difficile è sottrarsi al fascino della storia quando ha elementi così scenografici, suggestivi.

Consunta di fuori in un favo ambrato di miele, dentro, dai matronèi alla cripta, è fitta d'un suo dolce buio che custodisce il cumulo di fede, di preghiere adunate nei secoli. Vederla, quando è tempo cattivo, pare imbronciata d'essere così vecchia, con l'arenaria ammaccata, le loggette smangiate, i fregi corrosi: fregi da Purgatorio dantesco o, forse meglio, da bestiario medievale. Ma se la rade il sole a tramonto, il cumulo delle sue memorie, non che esser dipeso, trascorre e vibra per lo scolpito impeto delle cordonate e dei contrafforti come una forza giovane. Qualcuno ha parlato della chiesa di Polenta... A parte l'incoronazione avuta dalle strofe del Carducci e il sorriso di Francesca, la chiesa di Polenta non ha nulla a che fare con quest'acquaforte. E, sorriso per sorriso, San Michele ha avuto quello non meno ardente di Ermengarda prima di partire, invidiata, per la corte di Francia.

Ma cerchi San Pietro in ciel d'oro, chi vuoi andar per pace. Lo cerchi nella sua piazza remota, un tempo spaziante e mossa d'alberi, ora ingombra d"un pesante casone, che è un pugno nell'occhio della piazza e di chi la guarda. Se pensi che lì dentro, in un'arca d'avorio del Trecento (opera dei fratelli Senesi) trovano pace da secoli le inquiete ossa di Sant'Agostino, la basilica, anche per quel suo scendere giù («giuso in Ciel d'auro») pare inginocchiarglisi innanzi, in un gran singhiozzo delle Confessioni.

E quasi non bastasse quel colosso di santità a dar gloria alla basilica, nella cripta giace il corpo di San Severino Boezio, e, sotto un pilone, quello di re Liutprando. Proprio qui avvenne l'incontro di papa Zaccaria col re che, per ringraziare il Pontefice della sua buona amicizia, fece trasportare dalla Sardegna le ossa del Santo. Il Petrarca si commoveva visitando questo «grande consorzio» di santi, di filosofi e di re; e il Boccaccio ne aiutò la fama con la penultima novella del Decamerone, quella di messer Torello. Letteratura che non guasta.

E sarà amor di villaggio, ma quel San Gervasio fuori mano, quasi in campagna, con la piazzetta e il prato e l'olmo e il portichetto davanti, così familiare e rurale, dove la vecchierelìa siede con le vicine a rammendar tovaglie d'altare; e quel campaniletto che, per essere del secolo XI, rappresenta la priorità delle costruzioni romaniche cittadine, quel San Gervasio finisce per bloccare tutte le mie simpatie. Anche quel suo dare su stradette artigiane dove fino a qualche anno fa, un organetto spesso sospirava «Va, pensiero ...» o un pezzo della Traviata; insomma, quel San Gervasio è la parrocchia della quale mi piacerebbe essere ancora parrocchiano, com 'ero da ragazzo capitato in città a fare un pò  di ginnasio.

Senza dire che i pavesi, su quella piazza, respirano una lontana luce d'infanzia, l'infanzia cristiana della loro città, che proprio lì con San Siro, ebbe la prima vita. Sicché, andare a San Gervasio, è un andare incontro al fondatore della città cristiana, al patrono di Pavia. Patrono e chiesa che per la prima volta furono studiati e illustrati dall'arciprete Cesare Prelini, il dottissimo parroco di Albuzzano, il mio paese; al quale molto devono gli studi sulla Pavia sacra, né io saprò mai dire quanto gli devo.

Poi visita San Teodoro, abbaino del cielo. A guardarla, poniamo, dal Ponte Coperto, è la più fantasiosa cupola che si muova nel cielo di Pavia; un ricamo, un gioco. Ne parliamo più a lungo in altra parte.

Visita il Carmine, che il Jakob chiama la regina delle costruzioni lombarde «in stile di transizione dal gotico al lombardo del Quattrocento, o lombardesco». Ma, al di là delle definizioni che non ci riguardano troppo, la basilica è un'armonia, uno spazio orchestrato, una casa che da gioia ai sensi e luce all'anima. Pensi quanto l'arte deve alla fede che l'ha ispirata. Facciata tutta impeto, slancio: dalla gradinata che la distacca dalla terra, ai portali, all'ampie bifore, alle nicchie con statuette dell'Amadeo, al rosone, al cornicione ricamato, alle guglie che salgono in cielo, in gara col campanile che è il più alto e il più poetico della città: tutta un'eleganza che s'appoggia alla forza dei contrafforti robusti e quadrati dei fianchi.

Davanti a questa facciata, mi rivedo, fermo e incantato, in compagnia di Giulio Bariola che la «leggeva» come si legge un canto del Paradiso, dei più vicini all'Empireo. O forse meglio una canzone del Petrarca, sapientemente distribuita nella tecnica del fronte e della sirima, della chiave e della volta; ma poi, fuor dello schema, mette l'ale e si libera festante.

L'interno, a tre lunghe navi, è uno slanciato a grandi arcate su pilastri. Colma di penombra, par fatta apposta per creare l'incontro col mistero, con Dio. E si pensa che buon tempo aveva il nostro pur grande Carducci a lanciar strofe barbare contro le chiese gotiche. «O inaccessibile re degli spiriti - tuoi templi il sole escludono...». Buffo.

Visita San Francesco, e quella sua facciata di tenera freschezza che, restituita negli ultimi anni alla sua forma originaria, coi due portali di centro e la decorazione policroma in mattoni bianchi e rossi, par sempre irrorata d'una luce d'aurora. L'ampia trifora che sovrasta le quattro finestrelle tonde, aggiunge eleganza, e le cinque snellissime guglie le danno impennata e volo.

L'interno aspetta ancora, aspetta sempre d'essere rinnovato, gli archi d'essere sistemati, le colonne d'essere liberate dalla scagliola che le copre e avvilisce, impedendo il bell'effetto di pietra a vista, che è forza e ridente colore. I mattoni recuperati, renderanno l'eco della parola di Bernardino da Feltre che vi predicò nel 1493, come racconta il Bandella in una sua novella. Da alcuni anni, ha ripreso a chiamarsi San Francesco d'Assisi; e don Pietro Cinquini vi ha messo sopra alcune belle pagine, fini come le miniature di cui va arricchendo le chiese e le case della nostra città, con la perizia di un miniatore del Quattrocento, il monaco Belbello da Pavia.

Visita San Lanfranco (passando davanti a San Mauro, elegantissimo e lieto di far buona guardia al corpo della regina Adelaide) a un chilometro fuori porta Cavour, a ovest della città. È la basìlica più visitata dai forestieri, anche per il posto poetico dove sorge: sul Ticino, fra campi e alberi e balli campestri. La eressero i monaci vallombrosani alla fine del secolo XI, nel nome del Santo Sepolcro, perché anche da lì i pellegrini partivano per i luoghi santi. Più tardi, cambiò nome, in omaggio al vescovo Lanfranco, che vi morì e vi fu sepolto.

La facciata, come la massiccia torre quadrata che le sorge a fianco, è del secolo XIII e, divisa in tre campate verticali, è sparsa di tazze o scodelle iridate che riflettono il sole quando tramonta nei boschi del fiume. Ma tutta la facciata ha indelebilmente sopra di sé i colori bruciati dei tramonti. Verso il 1450 sorse il Chiostrino, adorno di eleganti bassorilievi in terra cotta; ora in rovina, tra le ortiche e le biscie.

Ma a San Lanfranco uno va per vedere l'arca del Santo, in marmo bianco; uno dei lavori più puri e tranquilli del grande Amadeo.

Tornato in città, visita in Seminario il Chiostrino di San Carlo, (all'interno del Monastero di S. Maria di Teodote - ndr) disegno bramantesco con affreschi di Bernardino de' Rossi: quasi fogli di antifonario miniato trasportati lì, con cavalieri e vergini e fiori, che hanno alimentata la mia giovinezza di seminarista sognante. E poi, Santa Maria delle Cacce, con quel chiostro d'aerea grazia da vantarsene città soavi come Fiesole, come Prato.

Entra in Canepanova, un girotondo ottagonale di bramantesca eleganza, con affreschi e tele d'un Seicento un po' enfatico, e tanto Procaccini e tanto Moncalvo. In un altare laterale, vi è sepolto il giurista lacopo Menocchio che, da sotto la lapide, «adhuc loquitur»: dice ancora, dice sempre, se è possibile aggiungere qualcosa a tutto quello che ha già detto. Su Canepanova, ora c'è una bella memoria di Flavio Fagnani, che la illumina.

Poni mente a San Primo in monte cuccagna, con quella facciata romanica così piena di misura da dare nobiltà al senso di parrocchia foranea che si respira lì tutt 'attorno: le case ariose, la piazza di paese, l'orto vicino e la vista del cielo. Di là dal Ponte, in Borgo, c'è Santa Maria in Betlem, di puro stile romanico; detta così perché fino al Quattrocento dipendeva direttamente dal vescovo di Betlemme per via di un ospedale che le sorgeva accanto, destinato a ospitare i pellegrini di Terrasanta.

Da ultimo, fai quattro passi fuori porta Garibaldi, lungo la Vernavola, a dare un'occhiata alla chiesetta di San Lazzaro; reliquia d'arte, memoria di pietà, se il nome ti fa pensare al lazzaretto che in età più cristiana vi sorgeva vicino.

Ma lungo, e tutto maravigliante, è l'album di queste ville di Dio. Nelle quali spesso entri, con fede o senza fede, ma con la tua tristezza d'uomo; e, uscendo, t'accorgi d'averla lasciata là, in qualche angolo scuro.

Quasi tutte coeve, queste chiese sono sorte per volontà di regine o di re; notizia che appare molto naturale per una città che dal secolo quarto all'undicesimo fu più volte capitale di regno. San Marino, per esempio, sorse nel 750 per volontà di re Astolfo, che l'arricchì di privilegi e reliquie rubate alle chiese di Roma. San Giovanni Domnarum sorse per volontà della regina Gundeberga, figlia di Agilulfo e di Teodolinda. San Felice fù voluta dal re Liutprando come cappella di casa; e Santa Maria delle cacce fu fondata dal re Rachis nel 747.

Molte furono abbattute e incorporate e mescolate con le comuni abitazioni. Sicché a Pavia uno che apra la finestra di casa, l'apre spesso sui resti di una basilica romanica, o su gli avanzi d'un monastero fondato da una regina, o su una ortaglia che fu il giardino annesso al palazzo del re.

 

E il pavese si sente sempre un po' di stirpe regale.