Il suo nome era Giovanni Omboni, nato a Milano nel 1870. Arrivato a Pavia nel 1877, da Cassano Magnago, al seguito di suo padre, Agostino.

Nulla ci č dato sapere della sua infanzia e dell'adolescenza, č certo perō che fu la povertā e la fame a temprare la sua gioventų.

Ce lo ritroviamo quando, giovanotto, aiuta un venditore di formaggi in un banchetto in piazza grande. Si tratta nientemeno che di quel Mauro Donetti che, prima con il nome di “Franceschin d'la fufa”, poi “Madunet”, sarā il grande poeta dialettale ancora oggi ricordato.

Poi Giovanni diventerā lui stesso titolare di un banco di formaggi.

Tale banco era un ottimo punto di osservazione per la mente acuta di Giuān, che vedendo quante persone quali studenti, muratori, commessi, facchini, dal contado risolvevano il problema del pranzo portandosi da casa il necessario, ebbe l'idea di allestire una modestissima baracca in legno in piazza Grande, dove preparava calda polenta e merluzzo che serviva per il pranzo alle persone che lavoravano in cittā, e che erano lontane da casa.

Era un “fast food ante litteram”, ma molto economico per chi non poteva avere che pochi centesimi per fare colazione.
Se ne servivano anche le massaie della zona per rimediare il pranzo in casa. Oltre al merluzzo, friggeva la pescheria minuta del nostro Ticino, e vendeva pure le aringhe affumicate ( i sarāch) e le acciughe salate per accompagnare la polenta.

Parecchi anni dopo, per disposizione civica la baracca dovette essere smontata e di conseguenza si fece venditore ambulante di frutta e verdura.

Girava per la cittā con il suo carrettino stracolmo della frutta o delle verdure di stagione imbonendo la sua merce: bisognava udirlo mentre col suo grosso vocione urlava “ahi! ahi!”, che non era grido di dolore ma soltanto l'avvertimento che aveva da vendere dell'ottimo aglio (ai in dialetto pavese); “pi pi pi pėsi pėsi pėsi” voleva dire che quel giorno aveva dei bellissimi piselli; “bčj e viv” era il grido che si udiva nella stagione delle ciliegie, belle sicuramente dovevano essere ma per “viv” Giovanni intendeva riferirsi al vermetto che quasi sicuramente contenevano.

L'appellativo "āl māt" da lui conosciuto e ammesso, gli veniva appunto dalle sue innocenti stravaganze e per la sua filosofia di vita inusuale per quei tempi.

Lui, socialista dichiarato da sempre, era tenuto d'occhio dal regime per le sue mattane anche salaci e per la sua abitudine di portare al collo sempre un bel foulard rosso.

Non ha mai subito violenza per questo, tuttavia nei giorni di vigilia di manifestazioni pubbliche del regime a Pavia, regolarmente veniva un funzionario di polizia a prenderlo a casa per accompagnarlo in questura e trattenerlo fino a manifestazione ultimata. Giovanni aveva pronta la sua valigeria di cartone con le sue cose e all'invito "Giuān, andųma?" se ne andava a passare il fine settimana in Questura.

Giuān al māt, era di animo generosissimo, sapeva accattivarsi la simpatia di tutti con il suo vocione e con i suoi richiami infarciti di motti e facezie che creavano simpatia e ilaritā.

Ironia del destino: si spense nel 1939, afono completamente, lui che era stato l'ultima voce di una Pavia che fu.

 

 

Giovanni Omboni con la moglie Santina