I MULINI NATANTI

Nelle acque del Ticino e del Po

di Mario Veronesi

Se guardiamo con attenzione l'affresco del Lanzani nella Chiesa di San Teodoro, si intravedono sul lato destro del dipinto due barche che portano una casetta di legno, risultano abbastanza nascoste, una dalla porta e una si intravede appena sulle mura della città.

Bene posizionati sulle barche sono due “mulini natanti”.

Vale a dire due mulini che macinavano le granaglie con l’aiuto della corrente dell’acqua dei fiumi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non sappiamo quanti mulini ci fossero in età medioevale, ma la prima menzione di un mulino sul Ticino risale a quando Lotario III (1075-1137) concesse al monastero di S. Teodote di Pavia di tenerne uno.

Un altro è menzionato in un diploma di Ottone I (912-973) del 972, con il quale concesse al monastero di Bobbio la libera navigazione sul Po e sul Ticino, ed il diritto di tenervi un mulino.

Un cronista della metà del Trecento dopo aver notato che sulla roggia Carona, lavoravano undici mulini tutti doppi, cioè a due ruote, non sa essere altrettanto preciso per quelli sul Ticino, e si limita ad annoverare:

“Oltre a quelli che in gran numero si trovano sul Tisino”

Solo alla metà del Cinquecento una carta precisa che in quell’epoca sono 26. Tuttavia il nostro sconosciuto cronista ci fornisce un altro dettaglio prezioso:

“Sopra il Tisino galleggiano navi di varie maniere, e mulini parecchi”

Si tratta infatti non di mulini in terraferma, ma mulini di legno galleggianti sull’acqua e perciò detti natanti o a barca.

La loro presenza doveva essere considerevole, come ci conferma il fatto che se dovettero rimuovere un discreto numero nel Naviglio Grande, quando alla fine del Duecento questo fu ampliato per renderlo navigabile, è l’epoca in cui il monaco Bonvesin de la Riva (1240-1315) scrisse stupito che sui fiumi lombardi sono in attività 900 mulini con oltre tremila ruote, ed aggiunge:

“Che dirò poi del fatto che oltre al numero suddetto di mulini e delle loro ruote, ve ne sono moltissimi altri, di cui non posso calcolare con esattezza l’elevato numero”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I mugnai pavesi godevano dell’autonomia corporativa essendo associati ad un paratico retto da cinque consoli.

Questo (corpus) normativo approvato da otto mugnai che rappresentavano quelli del Po, Ticino, Gravellone e Carona, regolamentava l’attività degli associati e fra l’altro stabiliva le misure d’ingombro di un mulino, e altre norme disciplinari, che dovevano essere rigorosamente applicate.

Interessante è la notizia che il mugnaio non può tenere più di un maiale, sei galline e un gallo, questo per il timore che un numero maggiore venga allevato a spese di chi porta i grani a macinare.

Ogni mulino recava di solito il nome di un santo: S. Giuseppe, S. Marco, S. Giacomo, S. Alessandro ecc...

In questo modo si poneva un opificio facilmente soggetto ai rischi di incendio e alle calamità naturali, sotto la divina protezione.

Questa era cercata anche con l’apposizione di scritte dipinte quali I.N.R.I., o l’invocazione (Dio ti salvi).

E come ogni attività produttiva avevano i lori santi patroni: Sant’Antonio Abate (17 gennaio) e Santa Caterina d’Alessandria (25 novembre).

Nel 1902 la Commissione della Navigazione Interna nella Valle del Po registrò nei suoi atti 266 mulini (25 nel pavese, 1 nel piacentino, 13 nel cremonese, 10 nel parmense, 4 nel reggiano, 92 nel mantovano, 30 nel ferrarese, 91 nel rodigino), che funzionarono fino agli anni 40′ del secolo scorso.

Questo stesso documento, ci permette di conoscere anche le loro varie disposizioni: a corrente, a pettine, a schiera, a scalare e a sfalso.

L’ultimo mulino sul Po, fu distrutto da un bombardamento aereo il 2 gennaio 1945

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