CURIOSITÀ DI PAVIA E DINTORNI

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Un errore urbanistico e storico...

Monsignor Agostino Gaetano Riboldi, nominato vescovo di Pavia a soli 38 anni, nel 1877, decise di costruire a tutti i costi la cupola del Duomo.

Per oltre due secoli e mezzo, dal 1600 in poi, gli architetti non avevano eretto la pesante cupola, perché non si fidavano della resistenza dei pilastri. Il profilo di Pavia nel paesaggio non era dominato dal pesante “cupolone” che oggi lo caratterizza, ma dalle snelle linee delle torri.

Prima ancora dell’inaugurazione, già nell’aprile del 1885, alcuni lunghi crepacci si produssero nel lato sud della cupola.

Si realizzarono tre grandi cinture di ferro, che si vedono ancor oggi, per legare la cupola ed evitare che scoppiasse. In settembre però una delle fasce di ferro, posta per il consolidamento, saltò e le crepe si approfondirono, provocando l’allarme dell’opinione pubblica.

Si giunse alla chiusura del tempio. Il Duomo rimase chiuso per oltre sette anni, perché dall’alto cadevano schegge di marmo.

La Commissione appositamente nominata constatò diverse irregolarità nelle fondazioni dei pilastri e parecchi errori costruttivi e di geometria delle nuove strutture.

L’architeto Maciachini subì durissimi attacchi per quello che fu definito un “disastro architettonico”.

Il vescovo si assunse ogni responsabilità per la cupola e, anzi, decise di non cedere e d’intraprendere un’opera ancora più funesta per la città, sotto il profilo urbanistico e storico: la costruzione della facciata.

 

L’architetto Maciachini, mentre progettava la cupola, aveva elaborato anche il disegno di una facciata per il Duomo, sulla base del modello ligneo di epoca rinascimentale.

Diversi intellettuali pavesi, tra i quali il prof. Pietro Pavesi e l’arch. Angelo Savoldi, si opponevano all’erezione della facciata, perché consideravano prioritario l’innalzamento dei corpi laterali della chiesa, necessari a contenere le spinte della cupola.
Aperta una sottoscrizione per raccogliere fondi e col contributo di vari enti, il Riboldi nel giugno 1893 appaltò i lavori alla ditta Pazzi, sotto la direzione dell’ing. Cesare Migliavacca.

 

 

 

Si cominciò a demolire le due superstiti facciate delle Cattedrali romaniche, S. Stefano e S. Maria dei Popolo.

Appena iniziate le demolizioni, si mise in luce il ricchissimo e splendido patrimonio di sculture e di mosaici d’epoca romanica delle antiche cattedrali, sino ad allora nascosto. Ne nacque un’aspra polemica.

 

 

 

 

 

Nelle foto:

I lavori di demolizione delle facciate delle antiche Cattedrali romaniche (1893–1895)

 

 

 

Davanti ad un tale patrimonio di eccezionale valore, e a fronte del progetto di uno “scheletro” di facciata che, causa l’esiguità dei mezzi finanziari, avrebbe presentato un semplice muro disadorno, lasciando ai posteri il compito di rivestirlo di marmo, l’architetto Luca Beltrami, della Soprintendenza ai Monumenti, chiese l’immediata sospensione dei lavori e nel contempo espresse voti perché “si studiasse e si rilevasse tutto l’organismo costruttivo medioevale, si provvedesse opportunamente alla sistemazione dei preziosi cimeli e si conferisse alla nuova costruzione un interesse d’arte che compensi almeno in parte la perdita degli antichi avanzi”.

L’architetto riteneva un “provvedimento inconsulto il demolire precipitosamente avanzi interessantissimi per la storia e l’arte pavese solo per lasciare il campo ad un muro rustico in mattoni”.

 

 

Tali recriminazioni sollevarono vivacissimo dibattito, ma il crimine fu compiuto. I resti delle due antiche Cattedrali sono oggi visibili, parzialmente ricomposti, nelle sale dei Civici Musei, mentre sulla Piazza del Duomo troneggia una brutta facciata incompiuta. La “buona volontà” d’un giovane vescovo ambizioso, unita alla sua scarsa sensibilità per il patrimonio storico, aveva privato la città di alcuni dei suoi tesori più preziosi.

 


Una ricca documentazione grafica e fotografica dei ritrovamenti fu esposta nel 1896 alla II Esposizione Triennale Nazionale di Belle Arti di Torino.

 

LA FACCIATA DEL DUOMO DI PAVIA                        di Alberto Arecchi