Carlo Dossi

scrittore pavese

  

. . . Fu questo nostro scrittore uomo piuttosto bizzarro. 

La prima bizzaria fu quella di nascere settimino (o settimestre, come scrive lui) nel marzo del 1849; e da allora cercò di stringere il circolo della sua vita e di far tutto con anticipo per vivere più intenso. In una delle Note azzurre racconta la sua impressione d'esser nato con idee già meditate dai suoi padri e d'avere in sé la vita di tutti i passati; e cominciò a pensare a cinque anni, a scrivere a sette, a stampare a sedici; a ventuno «aveva già versato tutta la bottiglina d'olio finissimo avuto da natura».

La seconda riguarda il suo nome, che era più lungo, come conveniva a persona di nobile casato: Carlo Alberto Pisani Dossi. Ce n'era per due; scelse il primo nome e il secondo cognome, e, come Carlo Dossi, non senza qualche umorismo, scrisse la Vita di Alberto Pisani, l'autobiografia dell'altro.

La terza fu l'idea ben fissa di acquistare il dialetto all'arte, che non era un involgarirla ma un arricchirla. Il dottissimo uomo che sapeva sorridere in greco e amare in latino, sapeva anche quale fresco serbatoio è il dialetto per una lingua. E si chiedeva perché accordare questa prerogativa al «bècero fiorentino» e non al «gentiluomo lombardo».

Evidentemente questo sedicente manzoniano non credeva alla «risciacquatura dei panni in Arno».

L'elenco potrebbe continuare. Come quel cominciare un romanzo dal capitolo quarto, e poi tornare indietro ai primi tre. Lettore del Foscolo, forse riecheggiava il Libro dell'Io, che comincia col sesto tomo («Mando avanti il sesto, perché gli antecedenti volumi sono ancora nel mio calamaio».) O l'adottare un'ortografia e una punteggiatura contro l'uso corrente, anticipando l'interrogativo e l'esclamativo al principio della frase. Del resto, lui stesso ci pensò a disegnare il libro delle bizzarie, che poi sparpagliò allegramente nei vari volumi.

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Ma, a evitare equivoci della sua vera figura, conviene dir subito che, al di là di certi lussuosi capricci, il Dossi fu un autentico signore delle lettere, «tagliato dalla stoffa lombarda dei Rovani, dei Cattaneo e dei Correnti»; e le sue apparenti stramberie, erano, viceversa, delle vere novità, doni di invenzione. Scrittore singolarissimo, voleva che la sua prosa fosse «ispida e odorosa», come presagiva il nome del villaggio dov'era nato tra i colli dell'Oltrepò pavese: Zenevredo, o Ginepreto.

Era un modo pittoresco di affermare la sua schietta natura di scrittore in cerca d'un proprio linguaggio.

E lo trovò, originalissimo, personalissimo, giovandosi di dialettismi variopinti («le case barbellanti pel freddo», «il cane che sgagna l'osso», «il carettiere che s'giacca la frusta», ecc.); recuperando parole inconsuete, auliche e arcaiche, ricaricandole di nuovo mordente.

Raddoppiò i significati di quelle germinate da etimologie inattese. Deformò quelle in atto e in uso, e stimolò quell'altre che una lingua tiene sempre in potenza: «Ci avviottolammo tra due poggetti che erbeggiavano...». Ardite novità, da far dire al Lucini che Dossi fu uno di quegli artisti nervosi che incutono nella lingua nuovi moti e guizzi, e ne esprimono nuovi gridi e bagliori. Naturalmente, c'era chi protestava contro «il corruttore della lingua» e un Luigi Capuana confessava di non capire se l'autore facesse sul serio o non volesse piuttosto canzonare il lettore.

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 Ma in Dossi, scrittore sensitivo e autobiografico, era un bisogno di ampliare il campo delle possibilità espressive per giungere a comunicare pienamente il suo finissimo piccolo mondo di ricordi, di sensazioni raffinate, di figure umbratili, di affetti e sentimenti pressoché inesprimibili.

Quel piccolo mondo che versò tutto nei primi due libri: L'Altrieri, pubblicato a diciannove anni, e la Vita di Alberto Pisani, a ventuno; come se a quell'età tutto gli fosse già chiaro, e la coscienza di sé e i problemi dell'arte, che non sta in quel che si dice ma nella forma che gli si dà. Libri freschi, sinceri, specialmente L'Altrieri, dove Dossi rivela la sua sensibilità di giardini, di sole e di vento.

Racconta, descrive, colorisce, addobba paesaggi per farvi discendere i suoi personaggi, così vicini alla sua fanciullezza trascorsa da poco; appunto, dall'altro ieri.

E passano figurine di bimbe diafane, evanescenti, già sacre alla morte. Lisa, per esempio: «una ragazzina di circa sett'anni; una di quelle fragili creature da scatolino e bambagia in cui l'anima è tutto. Gli occhi di lei, lucentissimi, lasciavan, per così dire, lo sguardo dove fissavansi….

Cominciò con una voce sottile, accarezzante, a digabbiare colombini pensieri, a confidarmi i suoi segretucci. Mi contò su, fra gli altri, ch'ella era la fortunata mammina d'una popàttola, alta sì e sì, imbambulata per anco». E' ancora la piccola Lisa: «Azzittì. Poi capricciò. Sopra di noi, gocciarono silenziosi momenti». Passano maschietti di scuola: «Nel toccare la soglia, erami sembrato uscirne una chiuccurlaia, un pestìo... E, appancate, quante differenti testine!... Si dispancò un tomboletto, tondo, grasso e bianco come un pan di butirro».

Al Croce piacque molto la scena delle Caramelle, e la riferì intera nel suo saggio sullo scrittore, lieto del modo come sapeva cogliere l'anima del fanciullo, messa tutta in un gesto, in un movimento, in una parola.

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 Dossi è tutto nella fedeltà ai ricordi; che sono quelli della sua infanzia profumata e viziata, vissuta nella casa sulla collina pavese, tra la grande cucina e la cappa del vasto camino. Innamorato di essi, Dossi parla a se stesso, per se stesso.

Ne nasce quel linguaggio interno che è fatto di trasalimenti, di intenerimenti, di brusii, come un armonioso sussurro di api attorno al melario.

L'ampiezza espressiva conquistata attraverso il linguaggio, lo aiuta a scoprirsi parentele con le arti figurative e la musica. Scrive, a proposito di in pittore: «Chi conosce il segreto dei pinti romanzi di Hogarth, comprenderà le mie scritte pitture».

E significativa è la certezza espressa nella dedica al Cremona: «A Tranquillo Cremona, dal qui pennello ho imparato a scrivere».

Visti bene (e, in arte, più legge chi più vede) molti racconti e raccontini del Dossi, si ricordano poi come un onduleggiare di teste e di gonne, in armoniosissime linee, in atmosfere di colori accordati che danno il tono e il suono di un quadro. Erano le idee e le tecniche della Scapigliatura, comuni al Praga, al Tarchetti e, più, al Camerana, la cui poesia è pure una scritta pittura.

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Quel che s'è detto di L'altrieri, la cosa più sua e più primaverile, va inteso anche per la Vita, che ne continua la genuità e la freschezza, mantenute da quel frequente rompersi in bozzetti e ritrattini, così confacenti al suo temperamento di scrittore frammentario. Qui, anzi, è più folta la gioia dei ricordi; ancora tanto vicini, e già fantasia, già mito; e più consapevole s'è fatta l'esperienza delle mezzetinte, adatte alla sparente materia del racconto. La Vita è l'altro piccolo capolavoro, anche se un po' guastato dal finale wertheriano dove la poesia cede alla maniera.

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      Dai ventuno ai quaranta, Dossi scrive altri libri: la Colonia felice: un sogno di bontà, di redenzione umana, un'utopia che lo imparenta col Moro e col Campanella della Città del sole. Come romanzo (a tesi) non interessa più nessuno, e la lode del Carducci pare sciupata.

Ritratti umani e La desinenza in A, condensano le sue vivaci qualità di scrittore satirico e di umorista; ma non riescono a liberarsi dall'aria di esercitazioni, e le figure che vi si muovono, stentano a prendere vita d'arte. La desinenza in A, una tirata contro le donne, amarissima e feroce, è il suo libro meno amabile, e quasi non si spiega tanta asprezza in un delicato ide che spesso e volentieri femmineggia.

Si vantava di essere un continuatore di Rovani; e si capisce, per certi recuperi rovaniani facilmente reperibili nelle sue pagine. Si considerava discendente del Manzoni e della sua «difficile facilità»; e questo si capisce meno. Ebbe, tuttavia, il Manzoni suo lettore consenziente, o indulgente.

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Morto nel 1910, lasciò inediti grossi quaderni di Note azzurre che, in parte, gli pubblicò la vedova: una selva di pensieri, una miniera d'arguzie, d'epigrammi, di macchiette, progetti di lavori letterari, tracce di fiabe per bambini (vere «gocce d'inchiostro»), e aneddotti sui contemporanei.

Ma la maggior parte è inedita [questo saggio risale al 1961, quando l'edizione integrale delle Note azzurre non era stata ancora pubblicata, ndr].

Vi attende da qualche anno Dante Isella, il giovane e sagacissimo critico che ha curato le poesie del Porta. L'edizione completa delle Note ci aiuterà forse ad avvicinare meglio questo scrittore d'eccezione, che fu anche uomo politico, Segretario privato di Crispi, ministro d'Italia a Bogotà, e poi ad Atene; dove un giorno lo incontrò il nostro Bernasconi mentre scendeva dall'Acropoli con le tasche piene di frammenti e di cocci, testimonianza d'una passione archeologica coltivata fin da ragazzo.

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L'ultima immagine che abbiamo di lui, è quella affidata alla villa detta il Dosso Pisani, presso Como ( foto a lato), intento a dedicare un portico all'amicizia. La fortuna di Dossi è, in parte, inspiegabile e strana. Ha avuto intenditori, non un pubblico di lettori, dai quali anche da vivo ha sempre cercato di star lontano, curando edizioni non venali e di poche copie.

Stoffa di innovatore, anticipò idee e modi letterari; ogni tanto qualcuno glielo riconosce, e par sempre la volta buona per Dossi e per un suo ritorno.

Ma subito dopo ci torna sopra il silenzio, come s'avesse paura a scoprir l'oro che giace nel seno della sua collina. E pare una ingiustizia.

O, forse, ha ragione lui quando, parlando non di sé, che non soleva, ma parlando con sé, dice: «Dossi è una rara moneta aurea, ma da gabinetto numismatico; utile allo studio, meno utile al commercio».

Cesare Angelini

 (tratto da C. Angelini, “Angelus sine coelo”, Torchio De’ Ricci, Pavia, 1986 e C. Angelini, “Quattro lombardi (e la Brianza)”, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1961)